La notte in cui mi scontrai con Carmen
Una storia di sala prove, Navigli, nebbia, Milano e anni 90.
[ premessa inutile \start]
Non so quanto durerà questo gruppo, raga. Sento l’urgenza di ottemperare a una promessa fatta, raccontando un aneddoto più volte annunciato e rimandato. (Ho controllato sulla Treccani, ‘ottemperare’ vuole la preposizione ‘a’. Non si sa mai. La glottopolizia è sempre in agguato.)
[ \end premessa inutile]
Tardi anni 90. Milano. Notte. Nebbia. (Sì, allora c’era.) Usciamo da una sala prove, zona Navigli, dove un’altra sera uscivamo a mezzanotte e entrava Manuel Agnelli, secondo me giù fuori come una campana crepa prima di iniziare. Ma questa è un’altra storia.
Usciamo chi? direte. Labbànda, direbbe John Belushi. Una banda con un nome che non si sapeva nemmeno come scrivere, pix piks !piks e il kasino con la kappa l’avevo fatto io, linguista in erba. Un vecchio errore, cantava Messieur Conte Paolo.
Ma sto divagando, al solito. Torniamo a quella notte.
Era stata una suonata mediocre. Non c’era stato il feeling giusto. Mi ero sentito superfluo, avevano lavorato molto sul coordinamento parte ritmica e parte melodica. La ciliegina sulla torta non serve, in quei casi, dà solo fastidio.
In quella band c’era una seconda voce (“fossi una bella figa, avrebbe avuto senso”, mi avevano detto, in una sorta di commento sessista doppio carpiato involuto). Una seconda voce è come il secondo violino nell’orchestra: e chi se lo caga?
Una voce senza lo spazio che avrebbe voluto per cantare le sue canzoni, una voce senza le palle per prenderseli, quegli spazi. (O per mollare la band, che sarebbe stata la cosa più logica. Una voce isterica. Sans cojones. Appunto.)
Insomma, scazzo al cubo.
Quando sai che puoi renderti conto ma non hai il coraggio di farlo, e fai finta di non vedere la realtà. Davanti a te, chiarissima.
Nonostante la nebbia. Eccolo, vagolava un impermeabile blu di pelle alla Roy Batty, rigorosamente vintage, con un ventenne inoltrato, i capelli (sì li avevo) biondo platino, e voce isterica. Quella sera più del solito. Gli altri chiacchieravano del più e del meno, per tenere vivo il contatto. Funzione fàtica, aveva studiato in semiotica il ragazzo di allora. Che noia.
Guardo il naviglio in fondo alla strada, cammino automaticamente, ignaro del mondo. All’angolo una ragazzina, chitarra sulla schiena, ha una direzione perpendicolare alla mia, sguardo sulla punta delle scarpe. Per la legge fisica dell’incomprimibilità dei corpi fisici solidi, bam, ci scontriamo.
Due rincojonites vagantes.
Non ci siamo fatti niente. Solo, ci stupiamo che esistano ancora queste strane entità chiamate esseri umani e che le Leggi della Fisica siano reali. Ci guardiamo negli occhi, ma solo per un attimo. Lei abbassa subito la testa, offrendomi la vista dei suoi capelli corti neri e arruffati, intenta a contemplare la punta dei propri piedi. Sembrava un po’ una skoppiata con la kappa, ma aveva un non so che di familiare.
“Scusa, ti ho fatto male? Mi spiace, non ti ho visto.”
Grande, Fede. Non riesci a trovare nulla di meglio? penso. Evidentemente, no. Mi rispondo da solo tra me e me. (Mi càpita spesso.)
Lei scuote la testa con fare di diniego. Non si muove. Io faccio un passo laterale, e con gesto formale del braccio la invito a proseguire nella sua traiettoria: “prego”.
Lei ridacchia. Per forza. Una specie di replicante denoartri, avrebbero detto a Roma, con pose da bon ton da ancien régime. Anacronistico e un po’ ridicolo.
La guardo allontanarsi e penso ‘l’ho già vista da qualche parte, ma dove?’ e bon. Infagottata in un cappotto più grande di lei. Tenerezza (ma perché, per tutte le semibiscrome?!?)
I contorni di lei si confondono nella nebbia. L’ultima silouhette che sparisce è quella della chitarra. Non va verso la sala prove.
Dove diavolo andrà a quest’ora della notte? La seguo con lo sguardo, immobile, finché non la distinguo più. Quasi volessi proteggerla da chissà quali oscuri pericoli. Cazzate cavalleresche. Cancello il pensiero con un colpo di spugna, prima che si fissi. Nessun drago in arrivo. Anime vive non pervenute (l’ennesimo titolo dell’album che non inciderò mai). Tranne lei e io, naturalmente. E i membri della band.
Ah, già, la band.
“Oh, Fede!”
Appunto. La realtà. Toc toc. C’è qualcuno?
“Quella era Carmen Consoli! Che le hai detto? Le hai dato il demo?”
Carmen? Demo?
cosa come dove quando sono costretto a uscire dal mio stato di trance non potevate lasciarmi lì ancora un momento ci stavo bene quasi bene almeno mi tocca svegliarmi d’improvviso
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Ah be’, eccomi qui.
Guardo il frontman del gruppo, la sua faccia pulita, piena di speranze, un po’ ingenua, sincera. Non trovo subito le parole. Farfuglio qualcosa di confuso. Nel gruppo, sono noto per essere quello fuori.
Un’altra occasione perduta. Anzi, hashtag #occasioneperduta, anacronistico per gli anni 90 ma ci sta un sacco, come dicono i giovincelli d’oggi.
In quella notte, decidemmo che avremmo dovuto darle il benedetto demo della band. L’avremmo inseguita finché non ce l’avremmo fatta.
Cioè, l’avrei fatto io. Claro que sí. Hashtag #focus #sulpezzo
Ma questa è un’altra storia, una storia di teatri e tangenziali.
Magari un’altra volta, raga.